invito alla lettura

 
 
 
 
 
 
 
 
Daniele Giglioli
L'autore è l'eroe
Di un carattere della più recente narrativa italiana

 
 
 
 
 

Mi sembra di essere uno di quegli attori hollywoodiani costretti a girare la scena in fondali vuoti che verranno ricreati al computer in postproduzione. Qui, invece del futuro, si tratta di ciò che c’era, ma ogni spazio è ugualmente tutto nella mia testa.

Cosa stride in questo brano, che ho prelevato dal romanzo di Chri­stian Raimo, Il peso della grazia?1 In apparenza nulla: è composto di periodi ben formati e ben concatenati. Ma proviamo a circostanziarli. Chi li enuncia è Giuseppe, ricercatore di fisica af­fetto da una compulsiva tendenza alla distrazione, mentre accompagna degli operai moldavi che devono ristrutturare la casa in cui ha passato l’infanzia. Il racconto è in prima persona, e al tempo presente. Intenzione palese dell’autore è dunque quella di installare chi legge nella mente dell’Io-narrato a cogliere senza mediazione il flusso di coscienza così come è stato al tempo in cui l’evento è stato vissuto. Anche se, come è ovvio, nessun racconto è possibile senza la mediazione di un’istanza narrativa; nessun Io-narrato senza un Io-narrante. Per quanto i tempi verbali possano essere al pre­sen­te, per quanto il racconto abbia la possibilità grammaticale di prefigurare un evento futuro (succederà questo e questo), la narrazione è di norma ulteriore rispetto ai fatti narrati; prima qual­co­sa accade, poi qualcuno lo racconta. Anche nel più autodiegetico dei racconti, il narratore è necessariamente dotato di un sapere (dal più semplice al più complesso, dal “come va a finire” alle interrogazioni sul senso) che non poteva avere al tempo in cui viveva.
Nel brano di Raimo, tuttavia, assistiamo con ogni evidenza a una massiccia confusione dei piani: per quanto Giuseppe sia incline al­la distrazione, alla riflessione, al distacco cogitabondo dalla contingenza del qui-e-ora, è estremamente improbabile che un paragone così efficace, peregrino, complesso e articolato si sia insinuato al­l’improvviso nel suo flusso di coscienza al tempo in cui la scena è stata vissuta. Molto più verosimile è che sia da ascrivere all’Io-narrante, al Giuseppe che racconta dopo i fatti con tutto l’agio di rendere attraverso le parole più appropriate, stranianti, sorprendenti e rivelatrici, le sensazioni confuse provate sur le motif; e dietro di lui, alle sue spalle, allo scrittore Christian Raimo, particolarmente versato in quel genere di paragoni. Il protagonista, in altre parole, pensa e vive come l’autore scrive: il suo sentire è strutturato come una pagina, l’informe della sua vita è predeterminato dalla forma artistica che il suo autore ha deciso di adottare. Tra personaggio e autore non c’è distacco, distanza, cesura, articolazione: sono la stessa cosa, anche se Raimo esiste e Giuseppe invece no.
La perdita è secca per entrambi: Giuseppe non è autonomo – o meglio non mostra, non simula una autonomia, come è prerogativa della narrativa di finzione fare; Raimo si priva della possibilità di sperimentare, sia pure nella modalità della finzione, una coscienza diversa dalla sua. Per ben caratterizzato e a tutto tondo che sia, il personaggio non possiede una sua lingua.
Che non si tratti di apax lo provano luoghi paralleli innumerevoli. Per esempio, ad apertura:

Mi sono convinto da tempo che se giungessi anche per brevi momenti a rendere più blanda la gravità dei ricordi e delle immagini e riuscissi a potenziare la mia indole alla distrazione, allargando lo spazio vuoto nella mente per far evaporare i pensieri fino a lasciarli diventare delle ombre, degli aloni – come quei cerchi fatti di piccole linee che nei fumetti indicano che lì qualcosa c’era ma è appena sparito – forse così riuscirei anche a bloccare quel processo di rumorosa inerzia che riduce la mia esistenza a una specie di vita contemplativa e a basso budget.2

Frasi, queste, perfettamente congrue a un saggio o a una pagina di diario, ma superfetate se ascritte alle riflessioni in tempo reale di un personaggio di romanzo, per di più fisico di professione, con la loro ben ponderata selezione di immagini (i fumetti a tratteggio discontinuo), di metafore («gravità dei ricordi», «vita contemplativa a basso budget»), di sinestesie («la rumorosa inerzia»). Alto tasso di figuralità, letterarietà esibita; con l’esito inevitabile di ri­durre al minimo l’illusione mimetica, come anche in questo altro brano:

Gli autobus jumbo vuoti come gusci accelerano anche in curva sulle strade deserte e bitorzolute, le radici premono sotto l’asfalto. È l’una, è piena estate: una stagione al nono mese di gravidanza. Fiora è andata tre giorni dai suoi, io passo ancora le giornate a pascolare su e giù dal CICPAD.3

Dove si vede subito che il rilievo sensibile delle radici che premono sotto l’asfalto si prolunga e si traspone senza mediazione alcuna nell’allegoria dell’estate in gravidanza, alla ricerca di un’aura poetica testimoniata anche dal settenario, intimamente pausato e scandito da un’anafora, «È l’una, è piena estate» (quando non lo si vo­glia leggere come un endecasillabo che include la prima parte del colon successivo: «È l’una, è piena estate, una stagione»). Tutte intenzioni, prerogative e piaceri dell’autore, che non perde occasione per sconfinare, tracimare, invadere con la sua superiorità ar­ticolatoria il centro della scena, relegando il personaggio al ruolo di portavoce, stilistico e ideologico. Giusta o sbagliata che sia in se­de estetica, l’indistinzione prospettica tra personaggio e autore non è una svista ma una strategia.
Che si tratti però di una strategia consapevole, risultato di un computo tra le opportunità che offre e i rischi che fa correre, è tutt’altra questione. A deporre in senso contrario sta il fatto che l’impotenza ermeneutica del personaggio, incapace di spiegarsi le ragioni degli eventi di cui è protagonista, si comunica come per contagio al narratore (che raccontando ex post dovrebbe capirne almeno un po’ di più) e all’autore (da cui ci aspettiamo sappia tutto, essendo stato lui ad inventare la storia). Più che di eventi, Il peso della grazia è intessuto di riflessioni, immagini, aned­doti, ricordi e divagazioni del protagonista, affetto da un’autocoscienza così radicale da stroncare il più introspettivo dei filosofi, e insieme in costante deficit di lucidità. Ogni fatto è circondato da un nuvola di interpretazioni, che però non raggiungono mai il centro. Perché Giuseppe ama Fiora? Perché lei lo ricambia, poi fugge, poi ritorna con lui? Lei non lo spiega, lui non se lo spiega. Che cosa capisce, il narratore, di sé e della donna che è diventata la sua ragione di vita? I grandi snodi ermeneutici della vicenda restano sistematicamente inevasi. Sull’autore stinge a ogni pagina l’impaccio interpretativo dell’eroe. Il romanzo è co­stellato di riflessioni religiose. Dove il pensiero non arriva, lì soc­corre la grazia di cui al titolo, apertamente ispirato a una Si­mone Weil addizionata a Jacques Lacan: non esiste rapporto sessuale, l’amore è il fiore e il frutto quia absurdum della fede. È questo che Raimo si prefigge? Il mistero ha il suo senso nel mi­stero stesso, o è lui che non è riuscito a spiegarlo? E soprattutto, chi è il vero regista dell’osmosi incontrollata tra personaggio e autore?
L’ipotesi che ci guida è che sia in gioco qui, più che il sintomo di una strategia, la strategia di un sintomo, di cui Raimo, più che au­tore, è a sua volta un preterintenzionale portavoce. Qualcosa di più ha parlato per bocca sua, irrompendo da un’altra scena. L’in­conscio – tutt’altra cosa dall’inconsapevole – è la cosa meno privata e personale che ci sia; è un linguaggio, più che un luogo, cui giustamente Lacan ha applicato quel memorabile antonimo dell’intimità che è l’extimité: il soggetto è tagliato dal significante, la sua esperienza interna è sempre il risultato di «un’espropriazione originaria».4 Quello che sembra emergere, in altre parole, è un’«i­deologia della forma»,5 ovvero un insieme di procedimenti compositivi e stilistici che – ideologici perché e finché impensati – con­tribuiscono al riprodursi di una configurazione storica che le pagine che seguono si propongono di ricostruire, interpretare e criticare. Prima di enunciarla, però, è necessario che il lettore ci segua in un non brevissima ma si spera istruttiva esemplificazione.

 

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